Andrisani Michele


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Critica

Hanno scritto su Andrisani Pittore:
G. Corrado
G. Pizzola
P. Tamburrano
G. Giordano
D. Sciandivasci
R. M. Fusco
I.Venuti
R. Zagaria
L. Gravina
A. Carbonara
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G. Angiulli
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A. Giannico
A. Palumbo



LE RAGIONI DEL CUORE NELLA PITTURA DI MICHELE ANDRISANI


Forse la storia del mondo è una serie di ricorsi tra il senno e l’insensatezza. Vedere tutt’uno è una facoltà che non serve
ai poeti. Il loro genio è la mira di un solo punto della sfera.
L. Sinisgalli, da “Calcoli fandonie”. 1967

Non ci si deve affatto meravigliare se un giovane pittore, come Andrisani, sceglie di appartenere a un’epoca della pittura, così travagliata e drammatica, quale fu il primo espressionismo; è perché, io credo, egli vede in essa tutte le contraddizioni di una società giunte al punto di esplosione; vede in essa i piazzisti di turno, di ieri e di oggi, proclamare la felicità universale, assicurata in pillole...
Collegandosi spiritualmente a quella temperie morale e sociale, Andrisani mi obbliga necessariamente a fare almeno un cenno a quella che, scoperta quasi quattro secoli dopo, costituì (insieme ad altre opere dell’autore) meta di pellegrinaggio e fonte d’ispirazione costante, quasi la tavola biblica degli espressionisti: “La Crocifissione” di Grunewald. In essa, infatti, noi troviamo per intero il sentimento popolare di Cristo. La tavola, che appartiene all’altare di lsenheim e fu commissionata al maestro tedesco (in realtà Mathis Gothart Neithardt) dagli Antoniti, fu, come ho già detto, il modello da studiare e interpretare, da parte degli espressionisti, per dar luogo a quelle loro opere febbrili ed eccitate che precedettero e, in certo senso recarono con sè, il germe della malattia che poi si rivelerà per intero nel nazismo. Se, in altri termini, la pittura si fa così vicina alla vita da confondersi con essa, è naturale che dalla vita assuma anche gli impulsi contrastanti, e il morbo, di cui si compiace (morbosamente, appunto!), e la volontà risanatrice allorché, rivelata la malattia a se stessa, vuole adottare una terapia sociale; sappiamo, però, quale valore il dittatore nazista assegnò a quest’arte quando, in blocco, la bollò di essere degenerata e la bruciò sulle pubbliche piazze! Voglio dire: “Fuoco con fuoco”! Lutero aveva bruciato pubblicamente la bolla papale, iniziando con questo gesto di rivolta a Roma il sentimento stesso della nazione tedesca insieme alla consapevolezza di possedere un’ “anima” individuale di popolo (quel dialetto germanico che sta per diventare “lingua”); Hitler, a sua volta, distrugge nel fuoco le opere degli espressionisti le quali, dopo tutto, risalivano allo spirito infiammato dello stesso Lutero, contendo in sè lo ripeto, sia i sintomi della malattia (la cultura nazionalista e il profeta dittatore che avrebbe fatto nascere dal suo grembo!) sia la denuncia della società tedesca malata (la Germania di Weimar e oltre!). D’altra parte è perfino superfluo osservare, e questo lo dico soprattutto nei confronti dello spirito nazionalista, come accada spesso che l’ammalato si ribelli più al medico, che gli annuncia la malattia, che alla malattia stessa... In questo senso (cioè di un sentimento “immediato” che non
“riflette”) allora bisogna dare ragione a B. Russell quando, nella sua storia della filosofia occidentale, parlando di Jean Jacques Rousseau, afferma che dal suo sentimento della Natura, affidato a nient’altro che a un’interpretazione soggettiva e individualista (ma io direi “musicale” e quindi “dittatoriale”!) della Natura stessa, sarebbero potuti nascere tanto la democrazia quanto il fascismo.
Ma torniamo a Grunewald e ai suoi dipinti di Monaco che furono i testi sacri per la generazione degli espressionisti tedeschi dal ‘19 al ‘30; nel grande altare di Colmar e dunque ne “La Crocifissione” (l’episodio centrale tra i nove), ecco che il Cristo è dipinto per la prima volta in una lingua affatto colta, sublime, formalmente elegante, ma rozza, sconnessa, volgare; io la definirei “dialettale”, e cioè interna appunto al dialetto germanico però, attenzione!, nel punto in cui esso sta per divenire lingua nazionale, la lingua tedesca.
Tutto, in questa crocifissione, è sregolatezza; il corpo umano, cioè di Cristo, è uscito dalla regola aurea, cara al Rinascimento italiano e ai suoi grandi protagonisti (come un Leonardo), di poter essere iscritto nel quadrato, figura geometrica, a sua volta, iscrivibile nel cerchio; le membra di Cristo, soprattutto le braccia, si allungano sui due assi della croce smisuratamente, quasi fossero rami d’un albero; le mani, poi, sono artigli serrati, serrati come gli uncini di un grande uccello venuto sulla terra per rapire l’ <<Agnus Dei!>> ma preso in cattura e sottoposto ai ferri e agli strumenti di tortura dell’aguzzino... Sembra, da una leggenda popolare molto diffusa da noi, che l’aguzzino appartenesse alla tribù degli zingari, gente che, notoriamente, fabbrica ferri: chiodi, martelli, tenaglie: e che per questo Dio abbia maledetto la stessa tribù (fu per lo stesso motivo che Hitler mise la tribù degli zingari nell’olocausto finale della tribù d’Israele? e se così, Hitler non interpretò Dio dalla parte di Lutero, assumendone la figura di Javeh, il terribile padre punitore?...).
In questa <<Crocifissione>> il volto di Cristo ha qualcosa dell’oscurità e delle tenebre abissali, è per metà nascosto alla luce; un intero cespuglio di spine ne avvolge la fronte!
Anche il dolore della Madre, Maria, non vi appare quello delle doloranti Madonne italiane. Ripetendo il motivo degli artigli, l’artista di Neithardt disegna le mani di Lei con un intreccio angoscioso delle dita, dando ben a vedere che il distacco tra Madre e Figlio, che nei pittori italiani è
l’atteggiamento contemplante della Madre che conosce il Mistero della Croce, tale distacco, dicevo, non c’è; il Figlio, giusto il groviglio delle dita della Madonna, appartiene ancora alla Madre, al viscere di Lei da cui è nato.
Questa la struttura narrativa della Crocifissione del maestro tedesco; in quanto alla materia, invece, bisogna dire che, dalle vesti alla pelle che ricoprono le ossa nodose, essa è appena una pellicola, lacerata per il panno, livida e d’un colore terragno per la pelle.
Il corpo di Cristo, infine, è coperto di lividi, di graffi, di escoriazioni e ferite come se, ha osservato qualcuno, più che essere stato flagellato, fosse stato trascinato dagli uomini sui rovi e sulle pietre; dà la sensazione che la tribù degli uomini non ha riconosciuto il grande uccello disceso sull’ara a ghermire la preda divina dell’Uomo e, invece di elevarlo a divinità riconoscendolo inviato dal Padre, lo abbia catturato e deriso, deriso più che preso sul serio se, appunto, si preferì trascinarlo in mezzo a quei rovi e sulle pietre pungenti del villaggio.
Ecco, allora, venire avanti la dissonanza, la disarmonia, la frammentarietà, tutti valori contrastanti con i modelli italiani della crocifissione; ecco venire avanti elementi quali lo sberleffo, il sollazzo, la derisione, elementi tutti contenuti nel rifiuto di Cristo quale inviato del Padre; ma questi elementi, è la mia osservazione, non sono interni ad un nuovo teatro che vuole rompere la teatralità composta dei modelli italiani ma quelli, al contrario, che irrompono <<naturalmente>> dal contrasto tra il <<basso>> (dell’<<anima>> popolare e dialettale) e l’<<alto>> della passione dei sensi divampata passione della Croce (per il rovesciamento della cultura pagana o, appunto del <<villaggio>>-<<pagus>>, operato dal cristianesimo).
E’ un contrasto, questo, che ora sorprendiamo alla fonte e, come dire, fulminato nella sua assoluta plasticità, ma che presto attraverserà tutto il corso della pittura e non soltanto della pittura. Se è vero, intatti, che il romanticismo fu (sempre nella cultura protestantica e per essa) l’ideale del <<genio>> e della contrapposizione tra intuizione poetica e lucidità, ci pare vero lo stesso che il contrasto tra i due <<toni>> assumerà in futuro la forma del contrasto tra l’<<io>> individuale dell’artista e lo spirito della società (borghese).
Parlo, naturalmente, del Cristo che viene esposto alla folla dalla tribuna delle idee repubblicane e rivoluzionarie, ed è sbeffeggiato, da quella folla, e deriso, in Daumier; del Cristo che, maschera tra
le maschere, fa il suo ingresso nel Carnevale della città, in Ensor; ma parlo, anche, del Cristo messo in caricatura, o raffigurato nella sua impotenza, in molte immagini della poesia moderna.
Chi non ricorda, infatti, l’allusione che si fa, all’artista escluso e schernito come un Cristo, nel poemetto de <<L’Albatro>> di Baudelaire?... Il magnifico uccello aveva possenti ali per remigare nell’aria da vero re dell’azzurro; catturato e posto sulla tolda della nave, lo si vede zoppicare goffamente come un infermo.., I marinai ne scimmiottano l’andatura zoppicante e ne ridono! In <<Bethsaida, la piscine des cinq galéries >> di Rimbaud, invece, Cristo è presente-assente. Appoggiato ad un palo, egli vede un paralitico immergersi nelle acque giallastre e uscirne guarito mentre s’incammina sicuro verso la città. Chi lo ha guarito? Cristo o Satana? Nessuno lo può dire.
Forse una forza di autosuggestione che ha infuso nelle membra la scarica vitale...
Sono soltanto dei momenti, questi, del generale movimento dissonante dell’arte moderna ma bastevoli, io credo, a lacerare l’antico velo e farci vedere il Cristo perdere la sua divinità e divenire interamente uomo, antropologia ed esistenza, cronaca e biografia; biografia, appunto, dell’artista isolato e ribelle nella società borghese a partire dal XIX secolo in poi. Egli, l’artista stesso, rivive in sé la vicenda della Croce e dell’Abiura non perché portatore di valori metafisici, rimandanti ad un mistero al di là del mondo fisico e terrestre, ma perché portatore comunque di valori spirituali che cozzano, o appaiono contenere nell’intimo una carica sovvertitrice, contro l’ordine esistente, un ordine basato sull’economia mercantile diffusa, sulla credenza positivista della Natura, sull’illusione, allora giovanissima e ardente, di un progresso e benessere illimitati.
E’ da qui, dal Cristo retrocesso a biografia dell’artista isolato e ribelle, che io vorrei, finalmente, iniziare a parlare dell’amico Michele Andrisani, segnalando subito due circostanze non superflue all’intelligenza di questo mio testo; che si tratta di un giovane pittore e lucano, nato, cioè, in uno di quei villaggi, appunto il paese di Montescaglioso, ove tra rovi e pietre pungenti ancora una ventina d’anni fa si sarebbe potuto, per l’inchiesta ad es. di E. De Martino, ambientare il Cristo flagellato di Grùnewald.

II Parte

Indico gli eventuali titoli delle opere di Andrisani: <<Ermafrodito con genitrice >>, << Rappresentazione antropomorfa della Croce>> (tav. III), <<Situazione riflessa in uno specchio >> (tav.V), <<Chi rimane a guardare >>, << Maschera di Dionisio in un cesto di fichi vuoto >>,<< Madre con bambino morto>>, <<Nuova condanna>>(del Cristo), <<Melanconia>>, <<Il tonfo del sonno>>, <<Il muro dei riflessi azzurri>>, <<Giovani che si fermano a guardare>> (eccetera). Quali, pur nell’appartenenza alla stessa temperie morale e spirituale, le differenze, di concetto e di visione, che distinguono le opere di Andrisani da quelle degli espressionisti?
A questa domanda sento di poter rispondere in due modi diversi ma complementari; primo che il volto del Cristo, che Andrisani dipinge, non appartiene già più alla figura dell’artista ribelle nella società da Baudelaire a Rimbaud, da Daumier a Ensor; secondo che, sebbene lo stesso Andrisani non lo dichiari per espressi lineamenti politici e sociali, è un volto, questo, che promana da una società che non può dirsi « borghese » (e cristiana) più di quanto possa dirsi <<consumatrice>>. Mi chiedo, in altri termini, quale possa essere, oggi, lo stato di solitudine dell’artista a petto d’un pubblico immerso, come è, interamente in una società appunto << consumatrice >> o dei consumi. Sappiamo veramente di questa separazione oppure no?
Il discorso, qui, si fa lunghissimo. Quale?.., che, ad es., ci troviamo di fronte ad uno smarrimento profondo di quello che, per me, dovrebbe essere il senso più geloso e prezioso dell’arte, dell’arte vista come forma dialogica invincibile ed immutabile... Soltanto un paragone per una successiva riflessione; il cinema, quale lo abbiamo conosciuto, e tutto ciò che oggi, in maniera invadente e totalitaria, produce per noi l’occhio della telecamera. Quale la differenza che vi possiamo cogliere? Che il cinema, ultima arte aggiuntasi a quelle tradizionali, ci conservò, o almeno così sembrò fare fino all’ultimo, la forma << dialogante >> (e quindi dialogica) tra attore (agente) e spettatore (agito); a telecamera questo non fa e, mi rendo conto, nemmeno potrebbe fare. Il perché, a parer mio, non è nell’ideologia prima che nel mezzo; è nel fatto, invece, che l’occhio della telecamera è familiare, costruito soltanto per cogliere l’<< interno >>; di fatto esso abolisce il rapporto esistente tra attore e spettatore. Eliminando la dualità, appiattisce i due termini in una identificazione che non è più l’ <<uguale – non identico >> dello spirito imitativo di Aristotele nella poesia ma il suo contrario: l’ << uguale - identico >>. Che accade, allora? accade che non esistendo più Autore e Pubblico per essere divenuti Medesimi; che fungendo l’uno da Desiderio che desidera e l’altro da Desiderio desiderato (e narcisisticamente soddisfatto!); poiché, appunto!, non si dà più opposizione tra i due termini, il Bello, prima considerato categoria universale del congruo e di ciò che è armonico, passi immediatamente a sottocategoria, altrettanto universale, dell’<< Indice di gradimento >>. Ecco, allora, che Apollo si ritira, dice L. Sinisgalli in <<Calcoli e fandonie >>, e lascia passare i Mostri. Si mettono a sfilare a frotte davanti a noi (appena girata la manopola della grande Trappola!); ancora sudati per il rito del cerone, si presentano al nostro sguardo con la lucida e orribile flagranza delle cere d’un museo, tirati in ballo da orologerie complicate nascoste nel cuore e nel cervello. E chi sono, in fondo?... Angeli domestici, vizi privatissimi e virtù publicissime; il Banale, l’ldiotesco, il Non Senso Assoluto, il Vuoto, l’Effimero. L’Effimero allora, gli occhi di bistro e lacrimevoli di abbondante << rimmel >>, si mette a puttaneggiare; ridondante di mille lustrini e occhi di pernice sulla coda di pavone, apre meravigliosi ventagli di piume dalle ali d’un cigno lavato con detersivo che << più bianco non si può >>. Presto si traveste. Scende dalla Croce e si mette a danzare. Allora il Cristo di Grùnewald può ben essere l’Efebo Motociclista dai muscoli alla crema d’arancio (anche di questo c’è bisogno per eccitare il verme ingordo e gigante che continua a manducare davanti al televisore!). Tutti, allora, possiamo vedere il nuovo Cristo scacciare le mercantesse con le ceste d’uova di tacchino dal Tempio e mettersi a vendere le magliette colorate con la sua effigie impressa di << Jesus Superstar >>...
E’ conclusivo, questo discorso, per dichiarare la morte dell’arte? e la morte dell’arte coincide con la morte di un Narciso che si specchiò nella stessa fonte della sua immagine?...
Il problema esiste ma, certamente, in termini affatto diversi da come o poneva, circa una ventina d’anni fa. il critico e filosofo dell’arte Argan quando, del tutto prematuramente, compilò un perfetto necrologio dell’arte stessa. Esiste, eccome!, ma non aspettandoci, ingenuamente, che la morte possa giungere, come dire, dal movimento << in progres >> della storia, immaginando, con una prospettiva altrettanto mitopoietica di quella che si vorrebbe abolire, la fine della struttura << ritardata >> della religione (o religiosità) e del mito che ne è alla base. Pur nella << pratica >> più piena e realizzata dell’esistenza umana, io credo, il bisogno del mito, della proiezione, rimarrebbe intatto; piuttosto, ed è questa l’analisi da proporre, l’impegno è vedere, oggi, come questo bisogno venga conculcato e snaturato dalla << pratica >>, (o dalle << pratiche >>) di due diversi sistemi culturali ma speculari tra loro per appartenere alla stessa società di massa; quella insita nella società di tipo marxista ed ideologico e l’altra appartenente alla società cosiddetta borghese e mercantile. Per Heghel, infatti, era supponibile una morte dell’arte ma, e non v’è dubbio che intendesse questo, soltanto se riferita a certe forme specifiche del passato, a delle forme le quali, lo sappiamo, avevano raggiunto ad es. nel mondo classico greco-romano, un accordo perfetto e irripetibile tra << interno >> ed << esterno >> (accordo rotto dal cristianesimo, soprattutto nella forma del protestantesimo che, come ho cercato di dimostrare, sbilanciò la forma dalla parte dell’<< interiore >> e del << sentimento >>). Se, dunque, un discorso conclusivo c’è da fare e si deve fare, è proprio quello di ricostruire le ragioni teoriche dell’arte, liberandola dalle << pratiche >> ideologiche e mercantili che oggi la snaturano e la rendono ottusa al suo vero significato. Liberata in questo modo, si può nutrire la speranza che essa, a sua volta, liberi da sé quei simboli, astratti quanto concreti, che l’uomo non finisce di produrre quando, << agente >> sulla natura con giusto orgoglio, accetti anche, nella forma dialogica, di essere << agito >> da essa e contenuto come suo elemento.
In questa problematica, così difficile e mossa, rimane comunque un interrogativo: quali possano essere, al presente, il destino ed il ruolo, dell’artista in una società che ha finito di chiamarsi cristiana (almeno nei tatti) ed è in cerca di nuovi << idola tribus >>. L’artista, oggi, vive in sé un doppio smarrimento; di non sapere concettualmente come si presenterà la morte dell’arte finora soltanto annunciata e se tutti i prodotti del suo spirito non siano da considerarsi, ormai, fantasmi d’un sogno che egli pretende di scambiare con i << realia >> della società produttrice e consumatrice.
Pur continuando a fingere di non immischiarsi nella società del suo tempo, egli conosce che non potrà mai più godere di quel sentimento, pieno e totale, che fu il ribellismo dei Baudelaire o dei Rimbaud nella società cristiana e mercantile della Francia della seconda metà dell’Ottocento (un ribellismo luciferino che, in quanto tale, continuava a rimanere sotto il cielo del cristianesimo!); conosce, semmai, che il suo è un sentimento dimezzato, roso dal dubbio che, in un’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte d’un Benjamin o dei << mass media >> di un MacLuhan, ogni posizione di ribellismo si tradurrebbe nell’atteggiamento infantile di chiedere l’impossibile esclusione dallo scambio e dunque di cessare la comunicazione.
Senza potersi più ritugiare in luoghi solitari, cari allo sfondo romantico, quali campi di ruderi e cimiteri dalle folte chiome dei cipressi (anche i cimiteri sono stati inghiottiti dalle città tra un quartiere e l’altro di periferia, tra un’esposizione di lampadari e un << supermercato >> di alimentari!), l’artista moderno si costruisce lentissimamente l’unico rifugio che oggi gli sia possibile: la malattia. La malattia, sospesa com’è tra guarigione e non guarigione, tra vita e morte, diviene l’unico << medium >> capace di fondere insieme due termini opposti e inconciliabili; la vita di tutti, sentita come rumore ottuso e inconsapevole, e la morte di sé, avvertita come il silenzio necessario che interrompere il rumore. Ma questa, dopotutto, è l’esperienza illimitata di gran parte dell’arte moderna, dalla pittura alla musica, dalla poesia al romanzo contemporaneo; da Kafka a Mann. Salito al sanatorio di Davos, il limbo che sospende il tempo storico e la coscienza infelice che se ne può avere da parte dell’uomo moderno e contemporaneo, Hans Castorp, il giovane protagonista de << La montagna incantata >> di Thomas Mann, vi rimane a lungo per guarirsi della sua malattia. Ce la farà a lasciare quel castello sospeso tra le nubi? Il sospetto, nel lettore, è che egli cercherà di rimandare il più a lungo possibile il giorno in cui dovrà scendere a valle nel rumore degli uomini (un rumore nemmeno tanto metaforico se, infatti, la carneficina del 1914 lo richiamerà, con sorte incerta, sui campi di battaglia). Se Mann, al posto di descriverci Hans come un semplice rampollo della borghesia mercantile tedesca, lo avesse voluto con i caratteri di un pittore, non v’è dubbio che nel romanzo avremmo avuto frequenti e minute descrizioni delle tele dipinte dal giovane a Davos, con la sorpresa di trovarci di fronte a delle opere sorprendentemente simili (o omologhe) a quelle che l’amico Andrisani va dipingendo da anni nel rifugio del suo studio.

III Parte

La malattia, perciò, è il luogo mentale e fisico visitato con frequenza assidua da Andrisani; già questo fatto, per me, attesta di trovarci di fronte ad una pittura che chiede attenzione
e riflessione; chiede di essere vista rinunciando immediatamente all’occhio che consuma << oggetti >> per buttarli nel gran mucchio dei rifiuti, quei rifiuti che, innalzandosi ormai simili a montagne escrementizie dell’attività febbrile e predatrice della città, c’impediscono di vedere il cielo.
Ma, naturalmente, la malattia è dolore, è, appunto, interruzione del tempo vitale, è più attesa della morte che della guarigione, ma ecco la sfida; la sfida è vedere, al fondo del bicchiere interamente scolato, la morte artigliare l’uomo televisivo e dargli la maschera finale, quella che non può mentire, e non lo può perché è l’ultimo singulto delle fibre nervose dell’uomo divenuto Attore Universale.
Scegliendo la malattia, Andrisani individua un passaggio stretto dell’esistenza odierna; individua, come dice ancora L. Sinisgalli nei suoi memorabili << Calcoli e fandonie >>, il buco, o un piccolo foro, da cui può svuotarsi l’universo intero.
Attraverso questo foro, come dalla perdita del sacco per la farina, ecco svuotarsi tutto lo spazio e, con lo spazio, io direi tutte le illusioni ottiche delle illimitate << prospettive>> che vi sono connesse... Ma vediamo di ragionare. È chiaro che se c’è una malattia , sembra suggerirci Andrisani dalle sue tele, ci dev’essere anche una diagnosi; la diagnosi porta con sé di andare all’indietro con la macchina del tempo e vedere dove (in quale punto dello spazio già attraversato) il ricambio organico, tra assimilazione e disassimilazione, ha trovato il suo inceppo.
Diagnosi (analisi dei sintomi), prognosi (giudizio sull’andamento e l’esito che avrà la malattia), fanno parte ambedue di un unico fatto; Che noi abbiamo rallentato il tempo e ci siamo messi a riflettere (da Rè, Indietro, e Flectère, Piegare, Volgere). Ebbene, mi sento di fare subito due osservazioni: la prima è che, in questo modo, Andrisani si ricongiunge alla lucidità (o riflessività sulla poesia) che fu il programma di Baudelaire contro inconsapevolezza del genio e l’intuizione del romantismo; la seconda è che, così operando, egli va al di là di una semplice << contraddizione >> rispetto allo spirito << modernista >> del nostro tempo; si trova, invece, a contestare direttamente le << pratiche >> (e le << tecniche >>) che caratterizzano i linguaggi artistici moderni. Quali linguaggi? Quelli, esattamente, che nascono all’interno del mezzo (alla McLuhan!) quale può essere, oggi, la macchina intesa come sostituzione dell’energia motrice dell’uomo e quindi come accelerazione del << tempo utile >> sotto forma di << velocità >> (o <<velocissimo >>). È di fronte a questa macchina, voglio dire, che le immagini di Andrisani acquistano per intero la loro pregnanza, sia perché, appunto, sono il risultato critico di un giudizio sulle forme dell’arte contemporanea, sia perché attuano una diversa << pratica >> nei confronti del << tempo utile >> o << velocismo >> che noi troviamo riflessi, ad es., nel dinamismo plastico del futurismo. Poiché egli, in altri termini, ha scelto la malattia come luogo preferenziale della sua indagine, mi sembra una semplice conseguenza che la sua sintassi debba venirci incontro come una struttura lenta, capace, cioè, di attraversare tutti i momenti analitici di << velocità minore >> o di << tardità maggiore >>, direbbe Galileo, come di provvedere, subito dopo, a disporli in un ritmo narrativo, psicologico più che di puro movimento, che può essere bene quello d’un film visto (o rivisto) al rallentatore. E una << pratica >> la sua, lo ripeto, che non può non trovarsi di fatto all’estremo opposto del << tempo utile >> suggerito all’arte dalla macchina, ricostituendo per noi, che ne siamo i destinatari, la gradualità necessaria a percepire non solo il tempo esecutivo ed economico dell’opera quanto, anche, quello diseconomico e puramente coscienziale . Per l’ << io >> che si riflette , infatti, e narra le sue infinite vicissitudini seguendo il sottile filo di Arianna che introduce nel labirinto di noi medesimi e di noi medesimi in cui giace un mostro, niente può essere più opportuno, oggi, che ricordate, come fa Andrisani, le stanze percorse, le angosce incontrate, i trasalimenti, gli urli non detti nel silenzio e che solo la memoria può registrare anche nel sonno. Basterebbe il tonfo d’una piuma, forse, e quel sonno latente, che muove le forme e i fantasmi della nostra memoria sepolta, cesserebbe di germogliare dal nulla presente e infinito a cui ci ha ridotti l’evidenza del << reale >> veloce.

IV Parte

Concludendo, si può affermare che la memoria circolare di Andrisani è in grado di circoscrivere pochi e precisi luoghi della malattia; in questi luoghi, ch’egli frequenta con assidua e lucida analisi è dato a tutti, per mezzo suo, di << ri-vive-re >> con << tardità >> quelle scene di ordinaria e quotidiana follia che I’<< occhio >> della macchina (della telecamera) ormai ci ha abituati a << vivere >> << en passant >>. Quali luoghi? I manicomi, le carceri, gli angoli oscuri ed immondi della droga, le stanze infernali in cui esalano vapori densi e crudeli da segrete fiale di veleno. In un << interno >> , interamente bloccato sui primi piani dell’ermafrodito e della madre, la donna fa il gesto di tirare una tendina; dal vano aperto della finestra, dall’oscurità azzurra e densa della notte, ecco erompere nella stanza e mettersi a danzare maschere di gromma, mostruosità del sonno, raggrinzamenti della morte; ad un tavolo, in atteggiamento serioso ed interrogante, sta seduta una scimmia, moderna e raccapricciante rappresentazione della Scienza umana, paludata quasi di una sacralità che è stata tolta e rovesciata dal manto divino della Scienza...
Il motivo dello scimmiesco, in quanto immagine della degradazione dell’uomo e caricatura di esso, è un motivo ricorrente della memoria circolare di Andrisani; nel salone grande e vuoto di un manicomio (tav. III), il cui grigiore è pari all’assenza di vita e alla perdita di colore dei sogni, dei ricoverati han trovato il modo di associarsi e compiere, a loro modo, un rito; rappresentare la Croce, portando in processione il Cristo... Vanno uno dietro l’altro, incollandosi nella fila a cerchio, ma sulla Croce, agitandosi e raggricciandosi come per i dolori dello spasmo finale, è inchiodata una povera scimmietta; m’immagino che la sua smorfia sia quella che si ricaverebbe applicando alla povera bestia gli elettrodi per un crudele esperimento di laboratorio... In un altro << interno >> (tav. V), che ha quasi l’immobilità d’una scena riflessa in uno specchio, è possibile incontrare la malattia stessa seduta nella carrozzella di un paralitico mentre attende, come l’uomo della piscina di Bethsaida, il miracolo senza nome; più in là il sesso, nella forma di un nudo femminile, attende anch’esso nella posa di una merce esposta in vetrina il rito celebrante del consumo; ci sono altri personaggi immersi nel sonno-veglia dell’aspra luce gialla; in mezzo alla stanza, su di un tavolo, i soliti strumenti di tortura; una bacinella, una stringa, una siringa dal lucido siluro di vetro in cui giace un siero denso e biancastro... Dietro una grata, attraverso le cui maglie trascorre un’aria azzurra di vento e di silenzio, un giovane ricoverato, una mano intrecciata alla rete, guarda davanti a sé con pupille vuote di cielo; dietro di lui l’ombra azzurra di un muro e pochi altri esseri addormentati nel vento che scorre senza rumore... Una maschera di Dionisio, con a faccia tirata del Diavolo a punte che conoscemmo nell’infanzia, ride oscena in una cesta vuota di fichi e rovesciata... Ma ecco, tra il tubo della stufa e l’attaccapanni dello studio del pittore, il Cristo flagellato di Grunewald, la corona di spine buttata via dal capo e con accanto il mucchio dei panni sporchi di sangue; più in là, invece, ecco seduto Otto Dix, lo sguardo sbarrato in avanti, mentre i sette vizi capitali, che lui stesso dipinse, gli strappano i capelli dal cranio e ne fanno fili di una scopa sulla quale, fra poco, prenderà il volo la strega che reca con sé, sulle spalle, il dittatore bambino con i baffi del << Fuhrer >>...
All’alba, abbandonando lo studio, lo stesso pittore Andrisani si vede atteso da una madre ritta sulla soglia di casa; è sicuro che ogni volta, scoprendosi il seno gonfio di latte, ella gli mostrerà il bambino morto che avanza dal suo fianco come un lungo osso di seppia prosciugato dal sole... Prodotti di un’allucinazione, dunque, le immagini di Andrisani? Forse, ma tenendo conto, poi, che si tratta di un’allucinazione costruita in laboratorio, e, soprattutto, in un laboratorio febbrile, come lo studio che ho detto, frequentato la notte da numerosi visitatori che si mettono a sedere, gli occhi divorati dall’angoscia, sui loro fardelli di dolore e follia. Chi sono?... Sono appunto le figure allegoriche della nostra condizione umana, le impossibili figure che ci tentano ogni volta, direbbe Benjamin, a parlare il linguaggio della sacralità, ma che ogni volta ci danno scacco matto per l’impossibilità, che abbiamo, di << ricomporre l’infranto >> (l’unità tra il Padre e il Figlio, tra << Deus absconditus >> e << Deus spes >>, tra Essere Assoluto e Essere Relativo, in Cristo, che svela e realizza il futuro della Storia).

Gerardo Corrado


ANDRISANI, POETA DEL DRAMMA

E' assolutamente arduo cercare di penetrare nel linguaggio e nel messaggio di Andrisani, perché la sua espressione pittorica è costantemente avvolta da un non so che di riservato, che rende intimo e soggettivo il contenuto dell'arte. Più che decodificare il suo codice linguistico, si può tentare di intuire, per mezzo dei barlumi e degli squarci improvvisi del suo velo protettivo, il cuore problematico della sua poesia, che è l'essenza stessa del problema esistenziale.
Il segno pittorico rivela una profonda crisi di ideali e, quindi, di speranza, perché, in fondo, per Andrisani la vita non ha un orizzonte luminoso e aperto: vivere è morire, morire è vivere; la vita è una continua, amara e intensa ironia.
La vita sembra che sorrida in maniera diafana e maligna, doppia e ipocrita: è un sorriso apparente perché al fondo si notano una sfida, una provocazione, un mal gusto di cui l'uomo è invaso. Si tratta di un sentimento amaro e perverso che occupa il cuore dell'esistenza, di uno scherzo satirico di cui la natura stessa atrocemente e causticamente gode.
Per Andrisani l'arte è una ricerca, un itinerario di indagine, una pista di analisi. L'arte sembra essere nello stesso tempo un mezzo e un fine: essa induce alla scoperta più dolorosa possibile, ma nello stesso tempo si indolora, assurgendo a correlativo oggettivo dell'amarezza esistenziale.
Numerosi indizi rivelano questa poetica, non ultima, la sagoma delle figure, che sembrano riflessi opachi di immagini contorte e contratte, proiezione chiara di una pulsione ironica e satirica che giunge al parossismo logico. Non si tratta di una comunicazione ma di un grido, di una esplosione lirica, di una deflagrazione di disperazione.
C'è, in questa personale originalità artistica, una totale fusione di mezzi e di tini, ossia uno profonda e continua ricapitolazione generale, per cui l'arte permette ad Andrisani di diventare egli stesso l'anima e il flatus dei suoi soggetti, allegoricamente composti in clima cromatico stemperato di ogni luce di speranza: l'arte di Andrisani viola e dissacra il metafisico, proprio perché‡ dissolve il mito. La decisione del segno grafico tradisce una durezza della tempra caratteriale, tanto che potresti pensare ad una pietrificazione del dolore, diventato tutt'uno col mezzo espressivo: la pittura di Andrisani è Andrisani stesso, che protesta in modo violento ed acre, ma sommesso e riservato. Si colgono l'angoscia e la solitudine dell'uomo con-temporaneo che ha perso, ove le abbia mai avuto, la fede e la speranza, non però, la forza erculea di vivere, nonostante tutto.
Che questa allusività metabolizzante l'essenza del vivere sia una connotazione soggettiva e non assurga a simbolo, ossia a metalinguaggio, tocca ad ognuno di noi cogliere e decidere. Certamente si tratta di una umanità senza sorriso, che digrigna, che grida vendetta, per cui è invigorita di una forza ferina e rozza, ma intatta e primordiale, per la quale la condotta esistenziale si scandisce su un piano fisiologico-naturale.
L'arte di Andrisani è una lezione di umanità dolente, è un esempio di eroica accettazione esistenziale, è un indicatore di etica storica: nonostante tutto, non ci si può e non ci si deve sottrarre al dolore di vivere! L'arte è la presa di coscienza di questo dramma che dolorosamente si svolge, identificandosi nella vita dell'uomo e dell'umanità, a livello di sensibilità germinale.

ANTONIO CARBONARA
ARTISTI DEL SUD
Michele Andrisani... o di una maschera per Dioniso
AI riparo dal vento cangiante delle mode, il pittore di Montescaglioso campisce le sue ampie figurazioni mettendo a nudo con allucinato realismo la condizione umana: droga, alienazione, miseria, emarginazione.
(P.T.)Se l'opera d'arte ha le sue radici nell'essenza dell'artista, prima che nella consistenza della realtà percepita e riprodotta, la pittura di Andrisani è rivelazione dell'uomo che è maturato in lui attraverso la vicenda non idillica del suo essere con l'esistere.
Egli è uomo sorpreso, ancora incredulo che la contraddizione soggiaccia agli eventi come la necessità alla natura, e perciò incline a ritrarre la realtà con immagini di dolore o con fremiti senza illusioni.
Nelle sue tele c'è il senso, spesso inquietante, di una pena totale, imprigionata nei volti o negli oggetti, che egli, con atto gentile, destina solo a se stesso, non volendo turbare negli altri una tranquillità che non è sua, e che non invidia a nessuno. A tratti la sua figurazione diviene poesia, che si esprime con le forme e i colori gravi e composti, sia quando balena vaga e sfuggente la fiducia, sia quando preme impietosa e vorace l'angoscia. Le pennellate ostentano, in entrambe le situazioni, forza e mitezza e definiscono con fedeltà i tratti del personaggio, teso a crearsi ciò che gli è negato.
Narrazione vigorosa e pietosa, l'arte di Andrisani e diario segreto, ma coinvolgente; è diagnosi del patire cosmico, dal quale l'artista non si sente fuori, e dentro il quale egli inventa e modella le forme più inusitate di umanità.
Esemplare l'opera e ricercare la propria identità. Ampia ed audace campitura di complesse strutture per l'esplosione di uno spessore inconscio a lungo tenuto a bada, dove il narratore disincantato e recalcitrante alla riconciliazione con la realtà, dà anche una misura d'ansia palpitante e mistificamente implacabile (Gravina).

Egli va al di là di una semplice contraddizione rispetto allo spirito modernista del nostro tempo; si trova, invece, a contestare direttamente le pratiche le (e le tecniche) che caratterizzano i linguaggi artistici moderni. (Corrado)

Non a caso è la malattia il luogo mentale e fisico visitato con frequenza assidua da Andrisani: nella malattia egli individua un passaggio stretto dell'esistenza odierna; individua, come dice L. Sinisgalli, il buco, o un piccolo foro, da cui può svuotarsi l'universo intero. L'intensa partecipazione è immedesimazione, intenzionale compatimento; è ansia di redenzione, mai attesa dall'alto, pensata solo per questa terra, sulla quale l'esistenza dovrà compiersi per uomini e cose.
E' una pittura compatta, costruttiva. che presuppone, l'esperienza della scultura, la lezione di Cezanne e quella di Caravaggio. La gamma cromatica alterna toni freddi e toni caldi, echi questi ultimi, di ferite ancora fresche. Prevale la figura. scarsi i paesaggi che, quandanche affiorano, non sono mai nero scenario ma reperti. testimoni, d'altre stagioni e d'altre sofferenze.
R. M. Fusco

Quasi impudico, nella sconvolgente crudezza, il narrato pittorico di Michele Andrisani si enuclea in glomeruli esistenziali al limite del vissuto, attraccati ad un dolore stupefatto ed allucinato...E' un viaggio in un mondo in cui lo spazio è luogo dell'immagine. Andrisani dipinge non ciò che vede, ma ciò che sente, restituendo il suo estro alla pagina pittorica come cammino avventuroso di fatica e di conquista.
L. Gravina

Tutto è fatalisticamente precostituito, quasi dimensione concretizzante di disegni inevitabili, parti di un mosaico drammatico che è, in ultima analisi, il fine ultimo di un operazione di elezione, di distillazione del dato puro dalla massa delle sensazioni.
Il contorno dei suoi personaggi si deforma. Abbandonandosi ad approssimazioni significative, prova di scarso indugio e di analisi pura.
G. Angiulli

fardelli di dolore e follia. Chi sono?...Sono appunto le figure allegoriche della nostra condizione umana, le impossibili figure che ci tentano ogni volta, direbbe Benjamm, a parlare il linguaggio della sacralità, ma che ogni volta ci danno scacco matto per l'impossibilità, che abbiamo, di ricomporre l'infranto..
G. Corrado

DIPINGERE IL DOLORE

Se esiste un mondo credo esplorato esaurientemente dagli artisti, questo è certamente il mondo della sofferenza umana. Volti pieni dì dolore, scene tragiche non si contano più nella tradizione pittorica del novecento. Ma se il dolore umano, viene preso come spunto non già per un dramma corale ma per mettere a nudo uno stato d'animo personale, individuale, allora il discorso si fa diverso.
E' il caso di Michele Andrisani, pittore lucano, che dipinge il dolore, la sofferenza, non più accettata dalla nostra epoca, quasi che non esistesse. Oggi non si parla più di dolore, ma di malattia, perchè il soffrire è pensato in relazione con il guarire. Ma Andrisani, non ha accettato questo quasi assioma del mondo moderno. Va contro corrente ed esprime senza drammaticità l'esperienza del dolore, la vera e propria sofferenza, che si apre all'interlocutore, pur restando chiusa radicalmente nel cerchio della propria individualità.
Ma allora questa pittura esprime solo sensazioni di morte, di disperazione? La verità è che Andrisani, ha una maniera tutta sua di rappresentare il frutto delle sue sensazioni e delle sue emozioni che vengono a costituire il momento di una appercezione poetica, cioè creatrice, da cui si originano, per una sorta di processo di stratificazione immaginario, le successive espressioni pittoriche. Infatti, viene a creare non poche perplessità il duplice binario lungo il quale sì snoda la sua essenza pittorica, da un lato una pittura che dà solo sensazioni di tristezza, di profondo e radicato malessere che tutto strozza e mette a repentaglio la stessa integrità umana; e dall'altro il recupero, un invito a rivisitare il dolore come una prestazione, una condizione necessaria di partecipazione alla vita: vista non come un fatto episodico della nostra esistenza terrena, ma come un fatto universale ed eterno. Non a caso l'artista concepisce la sua opera non come un tentativo di riabilitazione davanti alla tragedia di una umanità soccombente, bensì un accorato appello a tutti per salvare la natura umana nella sua integrità. Dunque il filo con la realtà non è tenue, ma profondo e radicato, palpabile che fa da stimolo e da incentivo al successivo momento di elaborazione cromatica del suo messaggio.
Perché, al di là del dolore, della disperazione, rimane sempre la speranza, vivificamente espressa da un colore così ricco ed intenso, fantasioso ed evocativo che ridà la pace. Ma se il colore trionfa come una linfa che dà il vigore, è il segno di una mano esperta che corre vigoroso e preciso, pulito e complesso che ridà forma ad una realtà. La realtà, che è lì dentro il colore, altro non è, se non quella che avvertiamo sempre presente nella vita quotidiana. Forse è lungo questa direttiva che va spinto il discorso di decifrazione, di lettura e di comprensione del messaggio di Michele Andrisani.
Così, oltre alle situazioni espresse, i lavori suscitano di volta in volta sensazioni di abbandono, paura, serenità, collera, grazia e così via, ottenendo quella simbiosità tanto rara tra significato che fa della pittura uno dei mezzi espressivi meno palpabili e più completi.
G. Giordano

E' fuori dubbio che su Andrisani è già stato detto abbastanza ed anche in maniera autorevole, tuttavia, avendo rivisto gli olii di Andrisani, a distanza di diversi anni (conosco Michele sin dai tempi della scuola d'Arte a Bari), sono restato sbalordito dalla luce inquietante e spesso terrificante che trapela dalle sue opere. Al di là, comunque, dal ricercare nelle sue <<visioni>>, poiché come è stato detto, Andrisani dipinge <<non ciò che vede ma ciò che sente>>, il senso di idiosincrasie psicologiche, della malattia o del peccato,… devo affermare che sono stato toccato dal valore semantico che Andrisani dà al tema del Volto.
Da quei <<volti>> traspare la dimensione del tempo interiorizzata soprattutto negli <<sguardi>>. Se come afferma Bergson ogni organismo vivente è un registro aperto su cui si iscrive il tempo, il <<volto>> in Andrisani è un registro su cui si iscrivono non solo le tracce generiche del tempo che fugge ma anche e soprattutto le tracce particolari, cioè gli eventi che l'individuo ha attraversato. I <<volti>> di Andrisani sono in ogni opera la rivelazione di come Egli è fatto spiritualmente e contengono la memoria di ciò che ha passato fino ad oggi. Potrei addirittura parlare di ritratto introspettivo in cui il volto diventa lo specchio dall'anima, spesso anch'essa confusa e attonita di fronte al reale, incapace di darsi un'immagine netta ad una sola dimensione bensì solamente e necessariamente pluridimensionale tra realtà e sogno.
Eppure quei volti raccontano una storia, e una storia ben precisa che noi non sappiamo ma che talvolta intuiamo e talvolta invece possiamo solo immaginare dall'espressione o inventarcela come
è accaduto con altre grandi opere del passato. Quei volti ci parlano e vivono nel loro silenzio e la vicenda di ogni volto è la vicenda di tutta l'umanità; l'osservatore sembra poter dialogare con loro che gli parlano e gli rispondono. Anche chi non è interessato alla pittura può soffermarsi a lungo davanti a queste opere, interrogare quei volti che cambiano di continuo pur restando identici. Essi rivelano l'essenziale, rivelano il phatos religioso di un artista che scolpisce l'uomo non per ritrovare il turpe, il deforme o l'animalesco ma per umanizzare la vita degli emarginati, dei derelitti, dei bruti, dei vinti. Per questo Andrisani può essere definito a giusta ragione un artista morale.
G.Pizzolla


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